Milan, Ibrahimovic ha detto che non è una "babysitter"
Ibrahimovic e l'intervista a The Athletic: «Al Milan ho voce in capitolo in molte categorie, ma non sono una babysitter».
Zlatan Ibrahimovic ha concesso a The Athletic una lunga intervista sui tanti capitoli della sua carriera, prima da calciatore e ora da dirigente. Parlando dall'altra parte dell'oceano, nel New Jersey, l'ex campione svedese ha rivelato aspetti della sua vita attuale e passata e analizzato il ruolo che oggi ricopre nel Milan: Senior Advisor di RedBird.
Ibra e il nuovo ruolo in rossonero
Ibra ha respinto con fermezza l'etichetta di "babysitter"; ha spiegato, invece, come i calciatori debbano prendere seriamente le loro responsabilità, impegnandosi sempre dando il massimo (e anche qualcosa di più).
Non sono una babysitter. I miei giocatori sono adulti e devono assumersi le responsabilità. Devono fare il duecento per cento anche quando non ci sono.
Zlatan ha assicurato che in casa Milan struttura e organizzazione lavorano in sinergia per il successo del club. Da Partner Operativo di RedBird il suo contributo è trasversale.
Ho voce in capitolo in molte categorie per portare risultati e aumentare il valore, il tutto con l'ambizione di vincere. Futuro da allenatore? No. Vedi i miei capelli grigi? Figuriamoci dopo una settimana da allenatore. La vita di un allenatore dura fino a 12 ore al giorno. Non hai assolutamente tempo libero. Il mio ruolo è connettere tutto; essere un leader dall’alto e assicurarsi che la struttura e l’organizzazione funzionino. Per tenere tutti sull'attenti.
Carattere da leader
Riavvolgendo le tappe principali di una carriera che attraversa decenni e confini, Ibrahimovic ha raccontato di come figure come Fabio Capello e José Mourinho abbiano plasmato il suo spirito da leader. Da loro ha imparato non solo la disciplina ma anche l'arte di ricostruirsi dopo ogni caduta. È questa resilienza, acquisita sotto la guida di alcuni dei più grandi nomi del calcio, che ha permesso a Zlatan di diventare un punto di riferimento per la nuova generazione durante il suo ritorno al Milan nel gennaio 2020.
Quando sono venuto (a Milano, ndr) la seconda volta, si trattava più di dare che di prendere. Volevo aprire la strada a una nuova generazione. Tu sei l’esempio, dicendo: “Ascolta, è così che funziona”. Quando sei a Milano è l’élite dell’élite: pressioni, pretese, obblighi. Bisogna assumersi la responsabilità, diventare uomo, perché un giocatore non conta solo il campo, ma anche la persona fuori. Ero il punto di riferimento. Non avevo un ego al riguardo. Ero come una specie di...angelo custode. Quindi tutta la pressione ricadrebbe su di me, non su di loro, ma allo stesso tempo facevo pressione su di loro.
La grande sfida di Maximilian
Ora lo scettro di calciatore è passato nelle mani del figlio Maximilian, attaccante nel Milan Futuro. La consapevolezza del peso che il cognome Ibrahimovic comporta è evidente, così come la determinazione di Zlatan di trattare il figlio non diversamente da qualsiasi altro giocatore.
Non è facile per lui perché, ovviamente, suo padre è quello che è. Quindi porta un cognome pesante. Ovunque vada, sarà sempre paragonato. Ma al Milan, nel mio ruolo, non lo vedo diverso dagli altri. Non lo giudico come se fosse mio figlio. Lo giudico come giocatore, come giudico tutti gli altri. Deve imparare, deve lavorare e deve guadagnare. Poi quello che succede, succede. È forte mentalmente. La gente pensa che il calcio sia facile e che tutti arrivino. Ma non è così.
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